Sono stati assolti Antonio Criniti, di 32 anni, e Filippo De Marco, di 42, accusati di essere stati gli esecutori materiali dell’omicidio di Matteo Vinci, il biologo di 42 anni che morì il 9 aprile del 2018 a Limbadi, nel Vibonese, a causa dello scoppio di una bomba collocata sotto l’automobile su cui viaggiava insieme al padre Francesco, di 73 anni, che rimase gravemente ferito. La sentenza è stata emessa dal Gup distrettuale di Catanzaro, Matteo Ferrante, a conclusione del processo con rito abbreviato. Il pubblico ministero, Andrea Mancuso, sostituto procuratore della Dda di Catanzaro, aveva chiesto la condanna all’ergastolo dei due imputati. Per Criniti e De Marco, difesi dagli avvocati Mario Tassone e Vincenzo Cicino (il primo) e Giuseppe Orecchio (il secondo) il Gup ha disposto la condanna, rispettivamente, a 10 anni e 10 anni e 8 mesi di reclusione per i reati di coltivazione, trasporto e spaccio di sostanze stupefacenti. I presunti mandanti dell’attentato ai danni di Matteo Vinci e del padre, Rosaria Mancuso ed il genero Vito Barbara, il 14 dicembre del 2021 erano già stati condannati all’ergastolo dalla Corte d’assise di Catanzaro.
omicidio
Due ordinanze di custodia cautelare sono state eseguite dai Carabinieri per un delitto di ‘ndrangheta commesso diciotto anni fa nel Torinese. Il caso, su cui hanno lavorato i Ris di Parma, avvalendosi di nuove metodologie scientifiche di indagine, è quello di Giuseppe Gioffrè, ucciso l’11 luglio del 2004 a San Mauro, alle porte del capoluogo piemontese.
La vittima era originaria di Sant’Eufemia d’Aspromonte e risiedeva nel paese. Il movente sarebbe da ricercare in una faida risalente agli anni sessanta. Quando Gioffrè fu ucciso aveva 77 anni: qualcuno lo avvicinò mentre sedeva su una panchina e gli sparò alla testa. Nel 1964, quando gestiva un bar-panetteria in Calabria, fu arrestato per un duplice omicidio dai contorni rimasti misteriosi: si disse che si trattò di un caso di legittima difesa contro due cugini residenti in un paese vicino.
Pochi mesi dopo, nella notte del 18 gennaio 1965, mentre era in cella, a Sant’Eufemia d’Aspromonte degli sconosciuti fecero irruzione in casa sua, dove la moglie, Concetta Iaria, dormiva con i quattro figlioletti, e spararono con lupare e pistola. La donna rimase uccisa insieme a uno dei bimbi (gli altri tre rimasero gravemente feriti). Una strage preparata con cura: furono tagliati i fili della luce per far precipitare la zona nel buio. Gioffrè si trasferì in Piemonte nel 1972, si risposò e non fece più parlare di sé. L’ipotesi degli investigatori è che secondo la ‘ndrangheta aveva pagato ancora troppo poco, nonostante la strage della sua famiglia, il suo antico sgarro.
Le ordinanze di custodia sono state eseguite a Parma e a Reggio Calabria dai Carabinieri del nucleo investigativo di Torino. Entrambi i destinatari, secondo gli inquirenti, risultano affiliati alla ‘ndrangheta. Uno era già detenuto per altra causa a Parma. Le prime indagini, svolte nell’immediatezza dell’omicidio, portarono alla condanna (21 anni di carcere) di Stefano Alvaro, considerato uno dei tre componenti del gruppo di fuoco. Nel maggio del 2021 i Ris di Parma si sono serviti di nuove tecnologie informatico-dattiloscopiche per analizzare alcuni reperti trovati vicino all’auto, bruciata, che era stata adoperata per l’agguato. Il procedimento è coordinato alla Dda del Piemonte.
I Carabinieri del Reparto territoriale di Corigliano-Rossano hanno arrestato un cittadino romeno, eseguendo un’ordinanza disposta dal Tribunale di Castrovillari su richiesta della Procura. L’uomo è accusato di essere uno dei partecipanti alla violenta rissa che si è consumata allo Scalo di Corigliano il primo giugno scorso.
Ma avrebbe anche attentato alla vita di un cittadino bulgaro, anche lui coinvolto nella rissa insieme ad alcuni connazionali. Il bulgaro dovette ricorrere alle cure ospedaliere. L’arrestato è stato posto ai domiciliari.
I Carabinieri del Comando provinciale di Reggio Calabria hanno arrestato un 53enne del posto, cugino della vittima, ritenuto responsabile dell’omicidio di Francesco Cuzzocrea, detto Nicola, avvenuto la sera del 20 ottobre 2019. L’uomo fu ucciso con diversi colpi d’arma da fuoco mentre manovrava l’impianto d’irrigazione del terreno di famiglia, in prossimità della sua abitazione nella frazione Rosario Valanidi della città calabrese dello Stretto.
Il cadavere di Francesco Cuzzocrea, riverso per terra all’interno dell’agrumeto in località Candico, fu trovato attorno alle 19,15, in una zona agricola piuttosto isolata e disabitata ubicata nell’area a sud-est del Comune di Reggio Calabria, a qualche centinaio di metri di distanza dall’abitazione della vittima.
Fondamentali ai fini della soluzione del caso si sono rilevati i sopralluoghi, l’acquisizione delle testimonianze di persone informate sui fatti e dallo stesso indagato, l’acquisizione e l’esame delle immagini estrapolate da sistemi di videosorveglianza, le attività tecniche di intercettazione telefonica ed ambientale e gli accertamenti tecnici balistici da parte del Ris, grazie a cui gli inquirenti sono giunti all’individuazione dei possibili moventi dell’omicidio e, quindi, al responsabile. Alla base del fatto di sangue ci sarebbe una situazione di aspra e crescente contrapposizione, dovuta a ragioni personali, familiari ed economiche, tra l’indagato e la vittima.
Un uomo di 57 anni, Pasquale Aquino, è stato ucciso a colpi di pistola a Schiavonea di Corigliano-Rossano. Il fatto è avvenuto questa sera. A sparare, secondo quanto si apprende, sarebbe stato un singolo killer, che poi si è velocemente allontanato a bordo di una moto che era poco lontano, forse guidata da un complice.
Aquino era davanti a casa sua, al momento dell’agguato. Sarebbe morto sul colpo. La vittima era rimasta coinvolta, nel 2017, in un’inchiesta sullo spaccio di droga. Anche il figlio ha dei precedenti simili. Sul posto sono intervenuti i Carabinieri del Gruppo territoriale di Corigliano-Rossano e la Polizia, che stanno esaminando le immagini di alcuni impianti di videosorveglianza e sentendo alcune persone della zona.
La Corte d’Assise di Palmi ha assolto dall’accusa di omicidio in concorso Berdj Domenico Musco, accusato dell’assassinio dello zio, il proprietario terriero di origini napoletane Livio Musco, 74 anni, avvenuto nel marzo del 2013 nel palazzo di famiglia a Gioia Tauro.
Esecutore materiale dell’omicidio sarebbe stato Girolamo Mazzaferro, morto quasi ottantenne, successivamente, per cause naturali. Movente dell’assassinio, eseguito con alcuni colpi di pistola, sarebbe stata la mancata restituzione da parte di Livio Musco di un prestito di ventimila euro ricevuto da Mazzaferro.
Livio Musco era il figlio di Ettore, che dal 1952 al 1955 fu direttore del Sifar e, dopo avere lasciato l’incarico, fondò la rete clandestina “Stay behind”, nota come Gladio. La Corte d’Assise di Palmi, presieduta da Francesco Petrone, ha assolto Berdj Domenico Musco con formula piena, accogliendo la richiesta del suo difensore, l’avvocato Antonino Napoli, del Foro di Palmi.
A carico di Berdj Musco la Procura della Repubblica di Palmi aveva ipotizzato una complicità nell’assassinio di Musco in considerazione del fatto che lo stub effettuato sull’imputato aveva dato esito positivo. Gli elementi d’accusa a carico di Musco si sono però via via affievoliti, anche in relazione all’assenza di un valido movente, tanto che il pubblico ministero, a conclusione della sua requisitoria, aveva chiesto l’assoluzione dell’imputato.
Due persone, un uomo ed una donna, sono state uccise con alcuni colpi d’arma da fuoco nelle campagne di Castrovillari. I cadaveri erano all’interno di un’auto, una Mercedes, in un’area isolata di contrada “Cammarata”.
Il corpo dell’uomo, 57enne, di Cassano all’Ionio, era nel vano portabagagli della vettura, mentre quello della donna, marocchina, 38 anni, compagna dell’uomo, era nell’abitacolo. Sui corpi delle vittime sono stati rilevati numerosi fori provocati dai colpi di arma da fuoco con cui sono stati uccisi.
Ad avvisare i militari sarebbe stato un residente della zona, che ha notato l’auto ferma e con i fari accesi. Secondo quanto emerso, l’uomo era stato già vittima di un precedente agguato nel 2013. Dentro al bagagliaio, oltre al corpo dell’uomo, è stato trovato anche un capretto morto. Indagano i Carabinieri, che non escludono alcuna ipotesi.
Un sessantaduenne è stato ritrovato cadavere nelle campagne di Rosaniti, frazione di Calanna, nel Reggino. L’uomo, Bruno Provenzano, è stato attinto da alcuni colpi d’arma da fuoco, mentre era a bordo del suo furgone.
Le prime indagini sono effettuate dai Carabinieri e coordinate dalla Procura della Repubblica di Reggio Calabria. In corso i rilievi da parte del personale specializzato del Comando Provinciale reggino. I militari stanno sentendo i familiari e alcuni conoscenti.
L’uomo, agricoltore, già noto alle forze dell’ordine, secondo quanto si apprende, era considerato vicino al defunto boss della ‘ndrangheta di Calanna, Francesco Greco.
Un uomo di 43 anni, Luigi Greco, è stato ucciso a Verzino, in provincia di Crotone, al culmine di una lite familiare con il suocero, Vito Avenoso, 64 anni. La lite sarebbe scoppiata per futili motivi. L’omicidio è avvenuto con un fucile da caccia nell’edificio in cui vittima e omicida, entrambi boscaioli, abitavano, in piani diversi.
Ferito anche un figlio della vittima, Francesco, diciottenne, che era presente al momento della lite e che è stato trasferito in elisoccorso nell’ospedale di Catanzaro. Un altro nipote, invece, è riuscito a sfuggire alla furia del nonno. I Carabinieri della Compagnia di Cirò Marina hanno fermato il presunto assassino.
Le indagini mirano a far luce anche sulle motivazioni del gesto. Tra le due famiglie, nonostante il legame di parentela e la convivenza nello stesso edificio, pare non ci fossero buoni rapporti già da tempo, circostanza confermata da una serie di querele intercorse tra i due nuclei familiari.
Subito dopo il delitto a Verzino si sono precipitati alcuni parenti della vittima, che risiedono nel vicino comune di Umbriatico, e che sarebbero venuti alle mani con i congiunti di Avenoso. E’ stato necessario il deciso intervento dei militari per evitare che la situazione degenerasse ulteriormente.
Due persone si sono presentate nella caserma dei Carabinieri di Lamezia Terme, nella serata di ieri, dopo l’omicidio di Luigi Trovato e il ferimento del fratello Luciano e di un’altra persona che si trovava con loro, Pasquale D’Angela. Il fatto di sangue si era verificato poco prima nel centro della città calabrese.
I due si sono autoaccusati del delitto, ma gli inquirenti stanno effettuando accertamenti. Non sono stati emessi, al momento, provvedimenti cautelari. Secondo quanto trapela, tra i due e il gruppo guidato da Trovato sarebbe scoppiata una lite che avrebbe portato alla sparatoria.
I due uomini che si sono presentati in caserma sono noti alle forze dell’ordine. Uno di loro è stato condannato nel processo “Perseo”, in cui era stato coinvolto anche Luigi Trovato, poi assolto in Cassazione. I due hanno dichiarato di essere stati aggrediti dai Trovato.
Due persone sono state arrestate perché ritenute coinvolte nel tentato omicidio di un cameriere trentaduenne, avvenuto lo scorso 14 agosto nella cucina di un ristorante di Isola Capo Rizzuto. Si tratta di un trentenne residente a Isola di Capo Rizzuto di un 35enne residente a Brugherio, in Lombardia, che, bloccando la vittima, hanno permesso all’esecutore materiale dell’accoltellamento, un 59enne di Isola Capo Rizzuto, attualmente in carcere, di colpire la vittima.
Ai due è stata notificata un’ordinanza di custodia cautelare in carcere eseguita dai Carabinieri della Tenenza di Isola di Capo Rizzuto, in collaborazione con i militari della Stazione Carabinieri di Brugherio. Il provvedimento ha accolto le risultanze delle indagini, avviate nell’immediatezza del fatto.
Il cameriere sarebbe stato colpito per motivi verosimilmente riconducibili alla lentezza del servizio. Determinanti si sono rivelati i racconti dei testimoni presenti, che hanno permesso d’individuare i due giovani quali complici del tentato omicidio.
La Corte d’Assise d’Appello di Catanzaro ha assolto Domenico Mignolo dall’accusa di omicidio volontario. Tutto era contro di lui, fino a poco tempo fa, quando l’accusa sosteneva che fosse proprio lui il killer di Antonio Taranto, ucciso nel marzo del 2015 al culmine di una lite, in via Popilia, a Cosenza.
Per Domenico Mignolo era stata chiesta la condanna a 16 anni. Invece è stato, appunto, assolto. Ed è stato assolto anche il cosentino Leonardo Bevilacqua, accusato di favoreggiamento. Sette anni fa, secondo la ricostruzione dell’accusa, Mignolo avrebbe sparato dal balcone della sua abitazione. Avrebbe centrato, in realtà la persona sbagliata. Perché, sempre secondo l’accusa, il vero obiettivo sarebbe stato Leonardo Bevilacqua. E questo perché Mignolo era arrabbiato perché gli era stato “sospeso”, per così dire, lo stipendio da parte del clan mentre lui era in carcere.
A far aumentare la tensione veniva citata una lite precedente, avvenuta in discoteca tra il presunto assassino e Bevilacqua. Taranto sarebbe stato del tutto estraneo ai fatti. Al ritorno dal locale, in una piazzetta di via Popilia, Mignolo sarebbe salito a casa e avrebbe iniziato a sparare nel buio contro il gruppetto di persone che erano sotto casa sua, colpendo a morte Taranto che, ferito, ha provato ad entrare nell’atrio di uno stabile per ripararsi. Adesso arriva l’assoluzione per Mignolo.
E’ diventata definitiva l’assoluzione di Gianluigi Foschini, di 28 anni, accusato dell’omicidio del 73enne Francesco Macrì, avvenuto a Crotone nell’agosto del 2014. La Cassazione ha infatti confermato la sentenza emessa nel febbraio del 2021 dalla Corte d’assise d’appello di Catanzaro che ha scagionato il 28enne da ogni accusa.
L’ipotesi che venne fatta fatta all’epoca dagli investigatori era che l’assassinio di Macrì fosse avvenuto in un contesto di criminalità organizzata. A compiere l’omicidio furono due persone, una delle quali venne identificata in Foschini, mentre l’altro responsabile non é stato mai individuato. Al 28enne, inoltre, veniva contestato di avere sparato i colpi di pistola che provocarono la morte di Macrì. Accusa fondata sul fatto che nel luglio precedente la vittima aveva colpito Foschini con uno schiaffo.
Alla base dell’arresto di Foschini ci fu anche un’intercettazione fatta nella sala d’attesa della Questura di Crotone in cui Vittorio Foschini, fratello di Gianluigi, chiese a quest’ultimo, parlando in dialetto, se lui ed il complice avessero usato un cappuccio per uccidere Macrì. Una frase che per gli inquirenti rivelava che Vittorio Foschini fosse a conoscenza del fatto che il fratello era il responsabile dell’omicidio del 73enne.
In primo grado Gianluigi Foschini, al quale venivano contestate anche le aggravanti della premeditazione e del metodo mafioso, venne condannato a 30 anni di reclusione. In secondo grado, gli avvocati Francesco Gambardella e Aldo Truncé, difensori di Gianluigi Foschini, presentarono un’istanza alla Corte d’Assise d’Appello, che l’accolse, per chiedere la riapertura dell’istruttoria dibattimentale, sottolineando la difficile comprensione della frase pronunciata da Vittorio Foschini. La consulenza di un perito d’ufficio confermò poi la tesi dei difensori, secondo cui la registrazione della frase pronunciata da Vittorio Foschini non consentiva di comprenderne appieno il significato. (